In una recente un’intervista rilasciata da Giuliani di Azimut al presidente del fondo P101, veniva evidenziata l’importanza della disponibilità e dell’elaborazione dei dati e delle informazioni ai fini della valutazione dell’andamento di una azienda e dunque per fini finanziari. L’esempio che l’AD di Azimut faceva era disarmante: invece di aspettare dopo circa un mese la trimestrale sull’andamento della vendite di auto potrei, attraverso i satelliti effettuare il monitoraggio dei parcheggi delle nuove auto, e stimare in tempo reale la salute dell’azienda.
Le tecniche classiche e tradizionali di valutazione delle imprese stanno sempre più mostrando i loro limiti storici in termini di mancanza dell’adeguato tempismo che è critico nella competizione globale ai fini decisionali soprattutto a livello di scelte finanziarie.
Inoltre vi è la perdita di vista di tutta la dimensione cosi detta “immateriale” che sempre più sta facendo la differenza e sta creando valore per coloro che, invece, la sanno riconoscere per tempo.
Tale componente è sostanzialmente composta da due parti in stretta sinergia. Quella legata alla componente digitale legata naturalmente a quella informativa ma non solo e quella correlata al fattore umano sia in sé sia per sé nelle dinamiche intra e inter gruppo aziendali. Tutti noi, ad esempio, sappiamo quanto sia fondamentale la figura carismatica del leader e quanto, in una squadra, un buon Coach possa fare la differenza e far diventare una somma algebrica di competenze o valori una forza sinergica e affiatata. Lo sport docet.
Ma per questa componente abbiamo già scritto e rimandiamo i lettori interessati al post su “Il colore del leader” oppure ad una recente presentazione tenuta ad un seminario sulla Leadership o ad incontrarmi al prossimo e imminente corso sul tema!
Considerando la componente digitale e il suo rapporto con la dimensione informativa il quadro sull’adeguatezza delle attuali modalità classiche di valutazione aziendale peggiora significativamente. Infatti una delle componenti informative fondamentali è quella relativa alle informazioni finanziarie ed economiche dell’impresa tipicamente misurate in termini monetari. D’altra parte l’avvento della digitalizzazione che in primis ha coinvolto la moneta stessa da quando ha perso il rapporto diretto con le riserve auree, ha progressivamente spostato il valore verso nuove forme legate al capitale comportamentale delle scelte degli utenti colte, al momento, soprattutto dalle nuove realtà della sharing economy o da parte dei big 5 (Apple, Google, Facebook, Amazon, Microsoft). Stanno emergendo nuove fonti di validazione ed attribuzione del valore nei contesti digitali (blockchain) di cui il bitcoin è solo una delle possibili manifestazioni e non è un caso che il senso/valore del bene digitale o prodotto venga a coincidere con il suo “risultato” dettagliato del “processo di scambio”. In fondo abbiamo sempre saputo che uno dei modi più forti di assegnazione del senso e dell’identità stia nella genesi temporale dell’oggetto di interesse: qui vengono tracciati e registrati tutti i momenti rilevanti. Il sistema delle Banche centrali, delle monete e dell’intero sistema bancario sta sempre più mostrando i suoi intrinsechi limiti, le blockchain umane al loro interno pensate per i controlli incrociati stanno sempre più mostrando i loro limiti nei conflitti di interesse fra dimensioni private e pubbliche, politiche ed istituzionali e l’aumento delle stampe di carta moneta non sembrano impattare e/o variare il corso economico come sperato. Di contro sempre più realtà o aziende senza che abbiano fatturato nulla, spesso anche gravate da debiti passano di mano a valori finanche di “bilioni di dollari” per la loro ricchezza o semplice potenziale di ricchezza futura di dati comportamentali o ambientali.
Si pensi, ad esempio, all’acquisto per 3.2 miliardi di dollari di Nest una azienda nata solo pochi anni prima il cui principale prodotto è un termostato per la casa!
Probabilmente se veniva analizzato il bilancio, le vendite effettuate, il management, anche nell’ipotesi più rosea non si arrivava certo a quella quotazione di valore!
Ed è qui che entrano in campo i Big Data.
Credere, sperimentare, fare e dominare questa tecnologia Big Data investendo in progetti pilota, prima, ora, e poi in repository generali a livello di organizzazione, ente o istituzione e stato, dopo rappresenta un notevole valore aggiunto per esser in grado di apprezzare, valorizzare e soprattutto “monetizzare” l’acquisizione ed integrazione con le tante nuove fonti di dati che vengono sempre più prodotte nostro malgrado dagli apparati e dalle soluzioni digitali. La maggior parte delle banche, dei fondi e delle istituzioni finanziarie muovono e gestiscono dati anche in volumi significativi con una tecnologia “relazionale” che non è intrinsecamente scalabile e comporta costi crescenti significativi al crescere dei dati con limiti oggetti alla potenza delle correlazioni ed analisi fattibili. In termini tecnici tali soluzioni vengono spesso chiamate “SQL” dal linguaggio tipico di interrogazione delle basi dati relazionali in contrapposizione alle soluzioni “NOSQL” delle tecnologie dati big dati. Senza un ambiente performante e “Big Data” gestito da ingegneri informatici e validi tecnici probabilmente il valore “percepito”, attribuito e “pagato” alla giovane azienda di termostati difficilmente sarebbe stato di qualche miliardo di dollari.
In questo settore non è sufficiente dire, capire o illustrare, è fondamentale Saper Fare e Fare Bene e per questo serve il coraggio del leader che faccia partire il progetto, selezioni e motivi tutto il gruppo tecnico che deve avere un background “serio” e “credibile”.
Pertanto vediamo sempre più che il valore aziendale iniziale di una startup è dato non tanto dai “dati” in se nel loro volume e varietà ne nella capacità di gestirli ed analizzarli quanto nel loro costituire un alto valore aggiunto per soggetti già organizzati a recepirli ed integrarli con una logica “big data”. Fornire un tassello specifico ma fondamentale per il segmento coperto può essere di “alto valore” quanto avere o, nel tempo, costituire una piattaforma capace di “monetizzare” e “correlare” dati specifici esterni e complementari. In vero le tecnologie alla base dei big data sono spesso “open source” e permettono semplici ed economiche crescite “scalari” e “lineari”.
Il problema è spesso culturale e non sono richiesti investimenti significativi . Anzi.
I soggetti che sono “naturalmente” per loro statuto, posizione o ruolo degli “hub” informativi di migliaia se non milioni di soggetti hanno già nel loro DNA la potenzialità di ottenere tutto il loro potenziale costituendo un ambiente “big data” capace di estrarre e dare valore dai tanti singoli soggetti in relazione con loro e/o acquisibili da loro. Gli altri soggetti, invece, specifici ed individuali hanno la loro massima potenzialità nello strutturarsi “complementarmente” ai loro “naturali” soggetti “hub” e sperare o indurre che questi diventino consapevoli per cavalcare la crescita esponenziale che è riservata a tutti coloro che colgono queste dinamiche dello spirito del mondo attuale. Quest’ultimi, nel crescere ed espandersi, grazie alla loro idea vincente, possono provare a migrare verso il “secondo modello” anche se questo passo non è scontato e cambia a 180 il dna di base.
In sintesi Big Data, blockchains e digitale sono le nuove Piazze, vie e abitazioni nei quali fluisce e cresce a dismisura il valore.
Questo valore sta alimentando Google, Facebook, Apple, e simili e nel contempo spiazzando tutta l’economia “old style” legata al petrolio, all’immobiliare ed in generale agli atomi più che ai bit.
Nelle valutazioni aziendali e soprattutto nella definizione delle strategie, delle vision e delle tattiche operative è importante considerare la nuova fonte del valore rispetto al cambio prospettico che la rivoluzione digitale sta silenziosamente ma inesorabilmente apportando e, soprattutto, occorre iniziare a terminare la semplice ed “ottusa” applicazione di metodi e criteri che nei nuovi contesti finiscono d’esser più di inganno che di guida.